Omelia di don Stefano nella Celebrazione della Passione – 29 marzo 2024

Nel libro: “L’uomo che piantava alberi”, è scritto che ogni albero racchiude una storia, un mistero, una memoria del passato. Esso offre ispirazione e creatività a quanti sanno guardarlo con occhio giovane, libero e aperto. Il prodigio dell’albero si riflette nella stessa mente e nel cuore dell’uomo. “Ogni giorno quell’albero mi dà pensieri di gioia” cantava un antico poeta cinese. Mentre uno dei santi Padri della chiesa, Bernardo di Chiaravalle, ammoniva: “Troverai più nei boschi che nei libri”.Oggi guardiamo l’albero della croce. Oggi, guardando quest’albero troviamo “tutto”, non semplicemente “più”.L’antico inno del “Vexilla Regis”, parlando della croce, la paragona ad un albero preziosissimo, più ancora dell’albero della conoscenza del bene e del male e dell’albero della vita piantati da Dio nell’Eden:

S’adempie ciò che cantò Davide, con spirito profetico,
predicendo alle nazioni: «Dio regna dal legno».
Pianta bella e splendente, adorna di porpora regale,
scelta da degno ceppo per toccare membra così sante.
Beata lei, dalle cui braccia pende il prezzo del mondo:
è divenuta bilancia del corpo e ha tolto la preda all’inferno.

Per parlare dell’albero della croce oggi vi vorrei parlare di un albero molto particolare che cresce principalmente in California: la Yucca brevifolia o più comunemente detta The Yoshua tree (tradotto in italiano: l’albero di Giosuè”) è un albero che si erge sempre solitario, con i lunghi rami carnosi disperatamente protesi verso il cielo.
Il nome scientifico di questa specie è appunto Yucca Brevifolia. Esso vive in condizioni estreme: il suo habitat naturale è la valle della morte e riesce a vivere per oltre 150 anni con pochissima acqua.
Il nome tradizionale è invece Albero di Giosuè, perché i suoi rami sembravano le braccia di Mosè levate al cielo sul monte per invocare che la forza di Dio renda Giosuè coraggioso e vincente nella battaglia che a valle sta combattendo contro gli Amaleciti.

Mosè, però, nel racconto biblico, non resisteva a lungo con le sue mani protese verso il cielo; per ovviare alla sua stanchezza gli Israeliti gli prepararono una pietra per sedersi e Aronne e Cur si offrirono per sostenere le sue braccia.

  • Qui, oggi, sul Golgota, non c’è nessuno ad aiutare Gesù.
  • Qui, oggi, sul Golgota, Gesù non ha alcun esercito da sbaragliare.
  • Qui, oggi, sul Golgota, Gesù sembra perdere la sua battaglia…
  • Ma soprattutto, qui oggi, io, tu, noi siamo molto distanti dalla collina del Calvario; siamo molto distanti da dove eravamo nell’età dell’innocenza e da dove dovremmo essere se avessimo la giusta maturità…

L’albero di Gesù è molto simile all’albero di Giosuè: è solo, si erge unico, maestoso e visibile nel deserto, vive anche se attorno a sé c’è solo morte.

L’albero di Gesù è molto simile anche ai nostri alberi che sono le nostre croci: ce le hanno buttate addosso (non le abbiamo cercate!), dobbiamo portarle passo dopo passo e non è detto che qualcuno si fermi ad aiutarci.

L’albero di Gesù, però, è unico nel suo genere. Ha ragione il buon ladrone quando dice: “Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male!”.
Ma oggi vorremmo immaginare i pensieri dell’albero della Croce di Cristo: come si trova ad essere – suo malgrado – al centro della storia? Che cosa vorrebbe dirci? Quale imbarazzo ad essere scelto per sorreggere Gesù che, appeso proprio a lui, salva il mondo?

Emily Dickinson, poetessa statunitense del XIX secolo, in una sua famosissima poesia intitolata “Al giardino non l’ho ancora detto” ci spiega il punto di vista dell’albero della croce:

I haven’t told my garden yet –
Lest that should conquer me.
I haven’t quite the strength now
To break it to the Bee –
I will not name it in the street
For shops would stare at me –
That one so shy—so ignorant
Should have the face to die.
The hillsides must not know it –
Where I have rambled so –
Nor tell the loving forests
The day that I shall go –
Nor lisp it at the table –
Nor heedless by the way
Hint that within the Riddle
One will walk today

Al giardino ancora non l’ho detto –
non ce la farei.
Nemmeno ho la forza adesso
di confessarlo all’ape.
Non ne farò parola per strada
le vetrine mi guarderebbero fisso –
che una tanto timida – tanto ignara
abbia l’audacia di morire.
Non devono saperlo le colline
dove ho tanto vagabondato –
né va detto alle foreste amanti
il giorno che me ne andrò –
e non lo si sussurri a tavola –
né si accenni sbadati, en passant,
che qualcuno oggi
penetrerà dentro l’Ignoto.

Emily Dickinson / garden, melancholy

Mi colpisce il ribaltamento della prospettiva sulla morte.
Il nostro esserci qui e ora induce l’aspettativa che ci saremo sempre (promessa priva di sostanza però).
Mi piace l’idea che da un simile ribaltamento la superbia dell’uomo ne esca smussata, che al pensiero della propria morte venga quasi da chiedere scusa per l’involontario abbandono: anziché preoccuparsi per la propria sorte, chiedersi come sarà la vita degli altri senza di noi…

L’albero della croce oggi sembra chiedere scusa a noi, perché su di esso, per sua colpa, il Salvatore del mondo non può e non riesce a salvare neppure Sé Stesso, perché la Sua luce si spegne, perché Lui, Parola di Dio, diventa silenzio per scelta, non perché zittito.

E Gesù invece, appeso a quell’albero, che cosa dice di sé? Che cosa dice all’albero a cui è appeso? Che cosa dice a noi?

“Se il chicco di frumento non cade nella terra e non muore, rimane solo; se muore porta molto frutto”.

Noi siamo fragili, ma alle tue parole prestiamo fede e attenzione:

I believe in the kingdom come
Then all the colors
will bleed into one
But yes I’m still running…
You broke the bonds
And you loosed the chains
Carried the cross
Of my shame
You know I believe it

Credo nel regno che verrà
E allora tutti i colori
si fonderanno in uno
Ma, sì, sto ancora correndo…
Tu hai spezzato i legami
Tu hai allentato le catene
Tu hai portato la croce
della mia vergogna,
Sai che ci credo

U2, I still haven’t found what i’m looking for

And I’m a long way
from your Hill of Calvary
And I’m a long way from
where I was and
where I need to be
If here is a light …
don’t let it go out

E sono molto lontano
dal tuo Calvario
E sono molto lontano
da dove ero prima e
dove ho bisogno di essere
Se c’è una luce …
non lasciarla spegnere.

U2 , Song for someone

Dal cuore, quindi, nasce questa preghiera, ultima strofa dell’inno “Vexila regis”:

Salve, o Croce, unica speranza!
In questo tempo di passione
accresci ai giusti la grazia
e offri il perdono ai colpevoli.