Lavoro in carcere ancora poco qualificante. Formazione in calo.
Il punto. Solo il 4,5% dei detenuti svolge attività alle dipendenze di aziende e cooperative esterne. Diminuisce la partecipazione a corsi professionali.
Stralci da: Il sole 24 ore del lunedì, Bianca Lucia Mazzei
Il lavoro in carcere, soprattutto quello più formativo e professionalizzante svolto per imprese e cooperative esterne all’amministrazione penitenziaria, resta una chance per pochi.
Iniziative virtuose non mancano, ma i numeri sono ridotti. I detenuti coinvolti a fine giugno 2022 erano solo il 4,5% di quelli presenti negli istituti (2.473 su 54.841), percentuale in linea con gli anni precedenti. Si concentrano, inoltre, in alcune zone d’Italia, in particolare Lombardia e Veneto. Molto più diffuso il lavoro alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria che, secondo i dati del ministero della Giustizia, a fine giugno 2022, riguardava quasi il 30% dei presenti. Per la maggior parte si tratta però di attività poco qualificanti (pulizie, lavanderia, ecc.) e non di lunga durata poiché assegnate a rotazione. Negli ultimi anni è poi diminuita la partecipazione ai corsi professionali. Di sicuro ha pesato la pandemia (nel primo semestre 2020 i corsi terminati sono stati 38), ma il calo era partito già dal 2010-2011.
Disparità territoriali, difficoltà nel coordinare i tempi a quelli del carcere e nell’armonizzare esigenze di due mondi diversi, sono i principali ostacoli da superare. Per i detenuti lavorare vuol dire entrate finanziarie, competenze professionali, utilizzo proficuo del tempo di reclusione, chance di reinserimento. Per la società riduzione del rischio di recidiva e quindi maggiore sicurezza.
Il carcere è anche respingente. Dovrebbe piegarsi di più alle esigenze degli imprenditori. Serve un approccio diverso e vanno accettati i rischi di una maggiore flessibilità. Ne vale la pena».
Di norma l’attività svolta per imprese e cooperative è più professionalizzante rispetto a quella alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Fanno eccezione le attività industriali di produzione di beni per uso interno (come falegnamerie, sartorie, tipografie). «I numeri sono molto ridotti, ma è un campo su cui puntare: sono lavori veri che cambiano la vita dei detenuti», spiega Alessio Scandurra, coordinatore dell’osservatorio sulla condizione di detenzione dell’associazione Antigone.
C’è, infine, il lavoro di pubblica utilità che è però privo di retribuzione. È stato validato come buona prassi esportabile dall’Ufficio Onu sulle droghe e il crimine. I protocolli d’intesa siglati in Italia, soprattutto con enti locali, sono già più di cento.