Via Crucis in diretta streaming – 13 marzo 2020 ore 18.00

via crucis in diretta streaming

In questa pagina puoi seguire la Via Crucis in diretta streaming delle ore 18.00 del 13 marzo 2020 leggendo i testi. Il filo conduttore della celebrazione sarà la figura di Giobbe.

Letture per la Via Crucis in diretta streaming

Prima lettura

La reazione di Giobbe alle sventure cui viene sottoposto ne definisce l’eroicità della fede e ne conferma la singolarità delle virtù; in primis quella della pazienza. Ecco perché Giobbe trova il coraggio di benedire Dio anche nel momento della prova. La pazienza di Giobbe qui prende corpo nella sua capacità di avvertire nel procedere drammatico degli eventi una parola che lo invita, nonostante tutto, ad affidarsi. La capacità di stare dentro un confronto che diviene sempre più difficile e impegnativo; un confronto che domanda quella che potremmo definire la “pazienza nella ricerca della verità”. Nel procedere dei suoi interventi Giobbe tende progressivamente a porre Dio al centro dell’attenzione, imputandolo come responsabile della propria insensata condizione; un Dio che ha non più alcun tratto patemo, ma solo quelli di un tiranno, che costringe l’uomo ad una vita carica solo di sofferenza. La domanda sulla vita e sul suo perché” porta Giobbe ad interrogarsi su Dio e sulla sua vera identità. L’afflizione è resa ancora più acuta dall’esperienza inattesa del tradimento”: coloro che considerava amici, si sono rivelati accusatori spietati, incapaci di garantirgli vicinanza sincera e autentica comprensione. Da un lato, una pazienza, che è fiducia in un disegno superiore, anche se misterioso; una pazienza capace di affrontare le contraddizioni della storia, non con un atteggiamento ingenuo e sognatore, ma autenticamente alimentato dalla fede. Dall’altro una pazienza, che è costanza nella ricerca della verità di Dio, e della propria vita; una pazienza che non si lascia scoraggiare dalla fatica del cammino, perché mossa in ultima istanza dall’amore e dal desiderio di Lui.

Massimiliano Scandroglio

Seconda lettura

“Signore, dov’eri?». Una giovane donna passeggia da sola in un bosco. alberi come giganti la accerchiano, i suoi occhi sono offuscati dalle lacrime appena versate. Guarda verso l’alto dove ritagli di cielo si liberano tra rami che vogliono intrappolare il suo dolore: suo figlio è morto. Nel silenzio del bosco la donna interroga Dio. A questo punto il regista Terrence Malick rende il film “The tree of life” un esercizio di meraviglia, traducendo in immagini la risposta alla domanda della donna: quella stessa risposta che Dio diede a Giobbe nell’omonimo libro della Bibbia, mostrandogli la creazione. Sotto gli occhi dello spettatore si dispiega per alcuni minuti la bellezza di tutte le cose, dall’infinito delle galassie all’infinitesimale delle connessioni neurali. Un momento di pura e rinfrancante contemplazione, in cui la Bellezza e il Dolore sono faccia a faccia. Il dolore ha generato la domanda, che costringe Dio a rispondere con le sue credenziali mostrando che non ha smesso di prendersi cura del creato, tanto che Giobbe esclama «prima ti conoscevo per sentito dire, ora invece ti vedo». Quando rivedo questa scena i nodi del dolore si allentano e ritrovo speranza, perché bellezza è il baluardo posto contro il nulla e il male: le cose, anche se non lo sanno, esistono e lottano per essere belle. (…) La risposta di Dio, come quella a Giobbe e alla madre, mi lascia interdetto: non è fatta di ragionamenti, come vorrei, ma da un invito ad aprire gli occhi. All’uomo viene mostrata la bellezza delle cose, dalle migrazioni degli stormi al moto degli astri. Come se il male non si potesse eliminare con un ragionamento, ma solo superare con una contromossa creativa. Perché? Perché la bellezza vera, che è evidenza di un’ininterrotta tensione al compimento, se ci tocca è una voce che, al nostro interrogativo, pone una spiazzante contro-domanda: dove sei tu, piuttosto? A che punto sei tu con i doni della vita? Il dolore non viene rimosso, ma disinnescato perché la risposta ne orienta il senso invitandoci a non usarlo come atto di accusa o di ritirata, e solo così può diventare fecondo.

Alessandro D’Avenia

Terza lettura

Lo sguardo che noi portiamo sul volto sofferente (pensiamo in particolare al volto sfigurato dal dolore, deformato dalla malattia, devastato da cicatrici, ustionato, alterato dall’alienazione), sguardo che oscilla tra la ripugnanza e la curiosità morbosa, è chiamato a percorrere il cammino che giunga a riconoscere l’umanità, per quanto ferita o umiliata, di quel volto. Un racconto della scrittrice finlandese Tove Jansson ci pone di fronte a quello sguardo d’amore che sa restituire umanità a chi ha visto mutato il proprio aspetto in irriconoscibili sembianze mostruose. Sintetizziamo la narrazione: Mumintroll, una delle creature del libro, gioca a nascondino con gli amici. Si nasconde nel cappello grande e nero di un vecchio mago senza sapere che tutto ciò che vi entra cambia aspetto. Quando Mumintroll esce dal cappello i suoi amici si ritraggono spaventati: il suo aspetto è cambiato e ora è temiticante, quasi mostruoso. Mumintroll, tuttavia, non sa di essere cambiato e non capisce perché gli amici fuggono. In preda al panico, intrappolato nei solitudine delle sue nuove sembianze, cerca di spiegare che è lui, è sempre lui, ma loro scappano via urlando per il terrore. In quel momento arriva la mamma di Mumintroll, lo guarda stupita e gli domanda chi è. Lui la supplica con lo sguardo di riconoscerlo perché se lei non lo capirà, come potrà vivere? Allora lei lo guarda negli occhi, osserva profondamente l’anima di quella creatura che non assomiglia affatto al suo caro figlioletto e dice con un sorriso: “Ma tu sei il mio Mumintroll”. E in quel momento accade un piccolo miracolo: il mostro, l’estraneo, svanisce e Mumintroll torna a essere quello di prima. Insomma, non solo ci è necessaria una cultura dell’ascolto, ma anche una cultura dello sguardo: e questo con urgenza ancora maggiore considerando lo scialo di esibizione delle sofferenze e delle morti sui mass media. Sappiamo volgere uno sguardo umano e umanizzante al sofferente?

Luciano Manicardi

Quarta lettura

Il nostro dramma, rispetto a Giobbe e all’uomo biblico in genere, è che l’età moderna ha perso completamente la capacità di esprimere e dare forma ai sentimenti e agli affetti fondamentali della nostra esistenza e del nostro corpo. Nei salmi spesso l’uomo malato grida, urla, sfoga la propria angoscia, chiede “perché”, protesta contro Dio: noi oggi, invece, siamo privi di questa facoltà di esprimere la nostra sofferenza. Prima di morire fisicamente moriamo della morte della parola in noi, siamo monchi della capacità di esprimere la sofferenza. La società moderna inibisce la manifestazione del dolore, soffoca la protesta, spegne il lamento, anestetizza e sterilizza non solo gli ambienti ospedalieri, ma anche le emozioni e i sentimenti dei malati. Non si può non ricordare qui come il Salterio sia una riserva di linguaggio e una scuola che può insegnare al malato le parole, la grammatica e la sintassi dell’esprimere la propria sofferenza. E come dimenticare le parole di Giobbe stesso ai suoi amici: “Al malato è dovuta la pietà degli amici, anche se ha abbandonato il timore di Dio” (Gb 6,14). E Dio stesso, stando alla finale del libro di Giobbe, gradisce maggiormente le invettive di Giobbe piuttosto che le prediche dei suoi amici (cf. Gb 42,8). Quando il malato vive questi momenti così critici, chi gli è vicino e l’accompagna è chiamato al faticoso compito di accoglierlo così com’è, per ciò che sente e per come esprime ciò che sente. Quando l’accompagnatore, o colui che sta accanto al malato accetta come un semplice fatto che il malato senta ciò che sente e lo esprima, il malato si sente autorizzato a smettere di tentare di convincerlo e può tentare di cominciare a comprendere che cosa c’è dietro ai suoi sentimenti cosi irrazionali. Quando è chiaro, le risposte diventano evidenti e il malato non ha bisogno di consigli o di risposte di altri. Potrà dare la sua risposta. Il momento dell’espressione della collera e della protesta sono manifestazioni di vitalità, di reazione e non di resa alla malattia. Allora le lacrime, il pianto, il grido, divengono valvole di sfogo importanti attraverso cui il malato, esprimendo – anche se non con linguaggio discorsivo – la propria sofferenza, manifesta un potere sulla sua malattia.

Luciano Manicardi

Quinta lettura

Solo Dio può rispondere. (…) E quanto osserviamo nella storia di Giobbe: Dio interviene nella disputa (…). A Giobbe il problema non viene risolto. Egli si rende conto soltanto della propria pochezza, dell’angustia delle sue prospettive nell’osservare il mondo. Egli impara a calmarsi, a tacere e a sperare. Il suo cuore si dilata, ma niente di più. Questa umiltà che si fa silenzio dovrebbe costituire anche per noi il primo passo della sapienza. (…) La risposta data a Giobbe è soltanto un inizio, un’anticipazione di quella risposta che Dio dà impegnando il proprio Figlio nella croce e nella risurrezione. Anche qui non ci possiamo affidare ai calcoli: la risposta di Dio non è spiegazione, ma azione. La risposta è un “con-patire”: non un puro sentimento, ma una realtà. La “con-passione” di Dio si fa concreta nella carne. Essa significa flagellazione, incoronazione di spine, crocifissione, sepolcro. Egli è entrato nella nostra sofferenza.

Joseph Ratzinger


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